domenica, agosto 09, 2009

FAZIONE ATTACCA: Prodotti avitaminici


Il Pacco 4.444


Il radio giornale delle 19.30 inizia la sua litania di notizie sempre uguali, non ho alcuna voglia di ascoltarlo e pigio il tasto di ricerca sul display della radio digitale mentre innesto la quinta e mi assaporo la spinta del motore fluido e potente di questa BMW serie sette.
Guardando fuori dal finestrino vedo il sole che inizia a stemprarsi in rossi sempre più densi mentre nella sua parabola discendente corre verso l’orizzonte di questa bella campagna.
Davvero questa macchina è fantastica, anche se fuori è agosto e il caldo umido fa appiccicare la camicia alla pelle qui con la regolazione della temperatura sono fresco e asciutto. Sento appena la lieve effusione del profumo Versace che lentamente dal mio petto evapora. Mi guardo allo specchietto per incontrare una sezione del mio volto che mi rimanda subito la certezza che sono in ordine. Viso curato, la barba appena fatta, una abbronzatura perfetta che conferisce al mio sguardo qualcosa di ferino, decisamente maschio. Devono essere le mie iridi di questo marrone talmente fondo da confondersi quasi con il nero della pupilla che mi fanno piacere, che mi rendono piacere nel guardarmi. Lo ammetto mi curo, ho rispetto del mio corpo e lo nutro a dovere, lo esercito ad essere sempre pronto, flessibile, vigoroso, bello al vedersi. Odio chi si ingigantisce sotto lo sforzo inutile di estenuanti sedute di palestra, una fatica superflua per fare risaltare una muscolatura che rende goffi, fa dell’uomo un pupazzo, una macchietta per commenti risibili da donnette al mercato. Io ho bicipiti proporzionati al mio peso forma, quadricipiti scolpiti lievemente solcati da vene scure che conferiscono loro la tensione controllata del corpo atletico ma non culturista. Questione di stile, questione di rispetto di se stessi. Guardo le mani poggiate al volante, curate anch’esse, con le unghie tagliate e limate. Sul medio della mano destra noto il leggero pallore della pelle dove la fede nuziale che solitamente porto lascia il suo lieve segno. Ogni volta che sono al lavoro la tolgo, un gesto riflesso credo. Prima di iniziare la ripongo dentro una piccola custodia d’argento che tengo nella tasca interna della giacca o del paltò nei mesi invernali. Non mi piace l’idea di commistione tra famiglia e lavoro, sono due cose distinte, separate che non hanno nulla in comune. Professionismo anche nel dettaglio. La radio non fa altro che trasmettere musica da discoteca o fiacchi motivetti che periodicamente come tormentoni ineludibili trasmigrano da una stazione all’altra. Le case discografiche, le emittenti televisive musicali devono spendere un bel po di quattrini per foraggiare il loro marketing spingendo i loro autori sull’emittenza locale o piazzandoli in qualsivoglia programmucolo televisivo. Penso che siano in fondo delle risorse mal gestite, dovrebbero puntare sulla qualità, incoraggiare degli autori con idee nuove…un po di coraggio e invece nulla. Spengo la radio e inserisco un cd. Mina i classici. Adoro questa sua voce, splendida, raffinata, tagliente e calda. Forse e meglio che rallenti non vorrei incappare in una pattuglia della Polstrada, diventerebbe imbarazzante essere fermato e poi essere costretto a dar spiegazioni del pacco nel bagagliaio. Magari lo potevo mettere nel sedile posteriore ma sono sicuro si sarebbe notato troppo. Porto l’andatura sotto i 130, non cambia poi molto sulla tabella di marcia anzi a ben pensarci sono in netto anticipo. Prendo il cellulare e chiamo Sara mia moglie. Il telefono trilla un po poi sento la sua voce rispondermi.
“ciao, sono io, siete già tornate dalla piscina?”
“Ciao Massimo, si siamo già a casa, Luisa è fuori in giardino, sta organizzando il party per le sue bambole, non ne vuole sapere di salire a farsi la doccia…figlia testarda sai! Deve aver preso da te.”
Sorrido immaginandomi la mia “piccinina” intenta a disporre tavolinetti di plastica per il piccolo party lillipuziano per le sue bambole.
“Massimo credi di esser a casa per cena?”
“Mi sa tanto di no Sara, sono ancora molto indietro e devo ancora vedere l’ultimo cliente, una seccatura, penso che andrà un po per le lunghe. Non aspettatemi, cenate, quando arrivo io me la cavo da solo, lo sai che sono un cuoco provetto!”
La sento sorridere e mi immagino quel suo largo sorriso che le conferisce quell’espressione unica. La mia Sara, otto anni di matrimonio e mi sento ancora innamorato di lei come quando ci siamo conosciuti il primo anno di università.
“Ok signor cuoco noi mangiamo i ravioli della nonna tu arrangiati con la solita scatoletta di tonno; non è il piatto che ti riesce meglio?”
“Esatto…esatto…ciao ci vediamo dopo…bacio!”
Spengo e ritorno a concentrarmi sulla strada. Mi viene da pensare a mia figlia, tra un mesetto e mezzo farà la seconda elementare. Spero che non si trovi ad aver a che fare con le stesse stronze maestre dell’anno scorso. Mi viene in mente quando un pomeriggio rincasando l’ho trovata col visino affranto perché una delle galline le aveva rifilato uno schiaffo. Il giorno dopo sono corso alla scuola per parlare col direttore. Ho fatto una raccomandata al distretto scolastico e una denuncia alla polizia. Quella stronza isterica l’ho fatta mettere in riga dal mattino alla sera. D’accordo, ho ritirato la denuncia ma ho preteso scuse formali e l’assicurazione che mia figlia non avrebbe mai più avuto a che fare con povere malate come quella. Picchiare mia figlia per una sciocchezza poi. Da non credere. Mi bolle il sangue a pensarci. Passano un po di chilometri e il cell trilla. Attivo il viva voce.
“Si pronto.”
“Dove sei?”
“Ciao…diciamo in dirittura d’arrivo, passo Ferrara Sud poi prendo la strada dei lidi….diciamo 50 minuti circa, traffico permettendo.”
“Ummh…e il pacco come è messo?”
“Sta nel portabagagli, come la volta scorsa, stesso procedimento, credo che buche a parte non si sia rotto nulla…almeno credo…e poi dai di che ti preoccupi!”
il cell tace per un attimo poi risento la sua voce:
“Si si il trasporto non mi preoccupa più di tanto ma è il caldo…sai non vorrei…diciamo non vorrei che si deteriorasse.”
“Vabbè, fammi trovare una piazzola e poi ci do un’occhiata…va bene così…ti tranquillizza?”
“Ecco bravo..si fai così..se tutto è a posto non richiamarmi…ti aspetto qui,,,intanto preparo qualcosa.. ok?”
“Ci vediamo lì più tardi…ciao.”
Chiudo il cell e lo spengo, per questa sera basta telefonate, devo prepararmi, il lavoro è lavoro nulla và fatto a metà altrimenti sulla piazza mi rovino il nome e se succede sono fuori definitivamente. Credo di aver almeno altre tre quattro anni buoni di attività poi giuro che mi ritiro. Non è il rischio che mi fa dire questo ma l’età e poi la tensione nervosa che con l’andare del tempo aumenta…potrei rischiare di ritrovarmi il lavoro che invade la mia vita personale e sarebbe un disastro. Penso che il mutuo per la casa ci terrà stretti per un altro paio d’anni poi anche quello mollerà. L’attività di Sara va bene e io potrei tranquillamente piantarla con tutte queste trasferte e riprendere la mia attività di fotografo, in fin dei conti tutto è partito da lì e mi sembra giusto che lì debba ritornare. La segnaletica indica un grill a 2500 metri, rallento la corsa, decido di fermarmi per una spremuta, ho la gola secca e poi così prima del rientro in corsia potrò dare un’occhiata al bagagliaio tanto per accertarmi se il pacco è a posto. Parcheggio la macchia e mi incammino verso il grill. All’interno la solita umanità varia e i volti indifferenti della cassiera e dei baristi. Ordino la mia spremuta mentre mi perdo con lo sguardo sui panini esposti. Appena fuori trovo il tempo di fumarmi una sigaretta. Cerco di stare basso con questo vizio, al massimo cinque sigarette al giorno. Prima o poi la devo smettere ma se consideriamo che prima ne fumavo almeno un pacchetto al giorno posso dire che sono sulla buona strada.
Salgo in macchina e riparto ma prima di uscire dall’area di servizio accosto un attimo e passo a controllare il pacco. Apro il bagagliaio e lo vedo. Avvolto nel domopack con le caviglie e i polsi legati da nastro isolante nero il tizio sta coricato con le ginocchia ripiegate sul petto e le braccia dietro la schiena. Una sorta di incaprettamento senza il lacciolo che corre dalle caviglie al collo. Alla bocca ha un boccaglio rosso legato dietro la nuca e riavvolto con dell’altro domopack. Lo guardo bene, non mi sembra messo male più del dovuto. E’ sudato d’accordo e mi pare pure che si sia pisciato sotto ma non cose gravi. Lo fisso negli occhi per un attimo. Ha quello sguardo perso da bambino frignante messo in castigo nella camera buia. Credo che voglia dirmi qualcosa ma me ne disinteresso, gli soffio contro le ultime boccate di fumo azzurrino tanto per farlo tossire un po e poi riabbasso il portellone. Devo dire la verità: le prime volte, quando ho iniziato intendo, certe situazioni mi imbarazzavano, provavo un senso di pietà per alcuni soggetti, o meglio oggetti, del mio lavoro ma con il tempo questa inquietudine si è andata smorzando, una sorta di adattamento emotivo. In fin dei conti è il lavoro, il contratto lo prevede, niente di personale insomma. Riaccendo la radio, regolo la temperatura dell’abitacolo e riprendo la strada. Quando arrivo a Ferrara esco dall’autostrada e imbocco la statale per i lidi. Percorro velocemente questo tratto con il sole alle spalle che spande la sua luce sempre più ammorbidita. Per arrivare sul posto devo percorrere una stradina laterale che porta al limitare di una pineta dove, sparse e ben distanziate tra loro, ci sono alcune case alcune delle quali coloniche. Molte di queste sono state ristrutturate, hanno tutte le comodità e durante i fine settimana qui si ritrovano famiglie, gruppi di amici e coppie clandestine per passare qualche ora in santa pace. Io mi dirigo verso una di queste. La proprietà è delimitata da un portone con grosse sbarre in ferro pitturato di nero e da una recinzione muraria alta più di due metri. La casa è circondata da un giardino dove alberi sempre verde la fanno apparire immersa in una penombra costante. Arrivo e suono tre volte il clacson. Il cancello si apre e io infilo la macchia dentro. Da una delle finestre vedo il volto di lei che mi fa un cenno di saluto, apre la finestra e mi dice:” Lo porti dentro tu o vuoi una mano?” “Mi arrangio da solo non preoccuparti.” Rispondo. Apro il portabagagli e con una strattonata metto il tizio a sedere sul fondo del vano, gli stappo il domopack dal corpo e dalla faccia. Prima di slegargli i polsi prendo le manette e gliele infilo. Lo guardo di nuovo e gli sorrido sardonico. “Dai stronzo che siamo arrivati alla cuccia preparati.”
Mugugna qualcosa di incomprensibile mentre gli slego le gambe. Con una trazione lo faccio saltar fuori dalla macchina e dopo avergli messo un collare lo lego al guinzaglio e lo faccio muovere a quattro zampe sul ghiaino che porta verso la porta dell’abitazione. La porta si apre e oltre l’uscio vedo lei già pronta. Indossa un paio di calze a rete autoreggenti, niente mutandine, ha la figa completamente depilata che sembra uno spacco roseo su un corpo abbronzato fin troppo. E’ lievemente soprappeso con i seni abbondanti da matrona racchiusi in un reggipetto color nero. Porta dei bracciali in pelle nera con piccole borchie argentee. I suoi capelli, tinti, sono di un biondo esagerato, direi volgare, molto volgare. Questa donna ha due occhi azzurri di una freddezza glaciale e un’espressione del volto dura e sprezzante. Le vado in contro e la prima cosa che fa e mettermi una mano nella patta mentre carezza la testa del tipo pelato ai nostri piedi che le si avvicina e le fa le feste davvero come un cane antropoformizzato. “era ora, dai andiamo sono già pronta…vuoi qualcosa anche tu per metterti a tuo agio?” mi chiede con una voce talmente conturbante che stimola la mia eccitazione. “No adesso no, porto il cane nella sala giochi, portami qualcosa di fresco magari intanto che lo preparo.” Lei ammicca e si stacca da me mentre io porto lo schiavo nella stanza preparata per la seduta. La stanza è un salone con le finestre chiuse e ricoperte da tende scure e spesse. Alle pareti nessun mobile se non una cassapanca allungata dove in bella mostra ci sono alcuni pratici accessori. Alcuni vibratori di varia foggia, dei boccagli a palla, una paletta, dei frustini, diversi tipi di catenelle con mollette metalliche. Nel mezzo del locale una panca con fibbie infisse ai piedi dove legare gli arti. Nella parete opposta una croce di S.Andrea completamente nera con anch’essa fibbie e laccioli posizionati a varie altezze. C’è anche una sedia, credo che useremo quella. Strattono il tipo e dopo avergli sganciato il collare gli ordino di mettersi in ginocchio con il capo verso il basso e che non s’azzardi a rialzarlo pena una punizione a base di schiaffi prima ancora che la sua padrona arrivi. Ubbidisce.
Prendo una delle mascherine in cuoio che stanno adagiate sulla panca e gliela infilo on testa. Ha i fori per gli occhi e una cerniera sulla bocca, la apro perché deve lasciare spazio al boccaglio a palla. Lo spoglio nudo come un verme e lo lascio li in ginocchio. Ha il ventre cadente e i muscoli pettorali flosci con una leggera peluria grigia che lo rendono ancor più patetico. Lei arriva in quel momento, ha in mano uno specchietto con un paio di righe di coca. Si poggia a sedere sulla panca e ne tira una con una cannula d’argento di fine fattura. “Vuoi?” mi fa. Accetto lo specchietto con la polverina e aspiro con violenza. E’ un piacevole calore quello che mi prende, “Dai mettiamoci al lavoro” dico subito dopo.
Lei mi si avvicina e mi bacia con forza, sento la sua lingua farsi largo tra le mie labbra, mi succhia la lingua mentre insinua una mano dentro la mia camicia. Il cane intanto rialza la testa, lei si volta e vedendolo si stacca dalla mia bocca e gli ride forte in faccia prima di rifilargli uno sberlone da incubo. “Chi ti ha detto di guardare stronzo?” gli sibila vicino alla faccia. Si rigira subito verso di me e indietreggia verso il volto del tizio parandogli difronte il culo. “Baciamelo stronzo” Il tizio sporge le labbra e bacia le natiche cadenti della sua padrona. Nel frattempo lei mi spoglia, mi toglie la camicia e mi abbassa i pantaloni. Da una bordatura di una delle calze estrae un piccolo lacciolo nero con borchette argentate e me lo infila alla base del cazzo, davvero conturbante. Siamo pronti. Lei si rigira nuovamente e prende per la catena attaccata al collo il cane e lo trascina verso la sedia.
“Prendi il vibro nero dai” mi intima.
Non me lo faccio ripetere e lo raccolgo dalla cassapanca.
Glielo passo come un assistente passerebbe il bisturi ad un chirurgo, lei lo lecca in punta e poi lo poggia sulla sedia e infine intima al cane di sedersi. Il vibro gli sale nel culo lasciando nell’aria il lieve rumore bianco del suo ronzare. “Dai fottimi adesso” mi ordina.
IO le vado dietro e la prendo per i fianchi prima di penetrarla. Siamo a terra davanti agli occhi sbarrati del tipo che seduto sulla sedia fissa negli occhi sua moglie che mugolando rotea la linguina fuori dalla bocca. “Scopami, sbattimi, dai maiale, fammi godere come questa merda non riesce a fare!” ha la voce rotta e calda, ansima pesantemente, gode.
La scopo con forza e sento il sudore che mi corre giù per il petto e la schiena, mi concentro con la vista sul cordoncino nero torchiato alla base del mio cazzo che vedo scomparire sul limitare della sua vulva. Vado avanti così, distaccandomi dalla scena circostante, la durata è uno dei miei pregi, i clienti mi chiamano anche per questo.
Sento che sto per venire e stringo più forte le sue natiche, poi la sculaccio ripetutamente al ritmo dei suoi ansimi. Vengo con un rantolo basso di petto. La sendo godere anche lei. Allora si stacca e con la figa gocciolante si avvicina al cane e gliela sbatte davanti agli occhi poi con una mano lo carezza sul sesso e in un silenzio rotto solo da ansimi brevi ed isterici viene anche lui.
Nel mentre io mi sono seduto sulla cassapanca e mi asciugo la fronte dalle goccioline di sudore che la imperlano. “Accendi la luce grande dai che lo slego” mi fa lei. Ubbidisco.
Dopo un po il Notaio Branzini sta in piedi abbracciato alla sua gentile moglie la Dott.ssa
Lermi famosa commercialista felsinea. Da parte mia mi sono già ricomposto e uscendo faccio loro cenno che li aspetto in salotto di là. Sono teneri nel vederli abbracciati mentre si sbaciucchiano come due diciottenni. Dopo un po mi raggiungono, prendiamo un caffè insieme chiacchierando del più e del meno. Guardo l’orologio e sono già le 23.00, ho ancora 100 km prima di ritornare a casa. Ci accordiamo per un altrio incontro per il mese prossimo, mi congedo da loro salutandoli calorosamente mentre con una mano prendo l’assegno circolare che l’avvocato mi porge. Uscendo prendo la mia macchina e guardo la bmw serie sette che anche io vorrei avere. Prima o poi me la compero, dico sul serio. Prendo la via del ritorno lanciando uno sguardo allo specchietto retrovisore. Mi rimanda una sezione del mio volto. Intuisco di essere a posto, una lieve ombreggiatura sul mio volto mi segnala che la barba sta ricrescendo, un lieve gonfiore sotto l’occhio nero e caldo mi avverte che ho bisogno di un sonno riparatore delle fatiche quotidiane. Ho cura di me, rispetto del mio corpo. Nel riprendere l’autostrada mi fermo ad un altro grill, bevo un altro caffè e da uno scaffale prendo dei dolciumi e un giocattolino per la mia “piccinina”.
Quando arrivo a casa le luci sono spente. Porto la macchina in garage e mi fermo un attimo in giardino, il caldo ha fatto ingiallire l’erba, domani provvederò a bagnare un po il prato, fisso le bambole di mia figli a abbandonate in un angolo del giardino. Sorrido. In casa regna il silenzio e faccio di tutto per mantenerlo. Spio in camera da letto e vedo Sara che riposa immersa nel sonno del giusto. Entro di soppiatto nella cameretta della piccola e ripongo il giocattolo e i dolciumi sul suo comodino. Sorrido in silenzio prima di dirigermi al bagno. Sotto la doccia penso che ci vorrebbe un impianto a goccia per il giardino, ma ci penserò domani, magari nella mattinata prima di prendere la mia famigliola per andare a pranzo da mia madre. E’ bello essere a casa.

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