domenica, luglio 31, 2011

Prodotti Avitaminici 4.444: LE AVVENTURE DI SFORTUNATO. Capitolo primo

Capitolo primo : SFORTUNATO





Mio padre era un incosciente ma non era il suo unico difetto. Già nella pubertà aveva iniziato ad avere problemi seri con l’uso smodato del vino a cui faceva ricorso perché, a sua dire, era timido e l’alcool lo disinibiva. In effetti il bere lo rendeva si più socievole ma non impediva alla sua balbuzie di manifestarsi e neppure alla gobba di rimpicciolirsi.


Mio nonno Edoardo era un uomo d’altri tempi, con la cinghia se la cavava bene ed era fermamente convinto che un carico di botte settimanale servisse da deterrente per i vizi dell’anima. Non faceva distinzioni, batteva tutti, mia nonna, il fratello di mio padre e mio padre più di tutti. Il poveretto, che già aveva i problemi suoi, sublimava nella pittura. Dipingeva marine ad olio, mio nonno non apprezzava la sua vena artistica e i quadri finivano spaccati o sul fuoco. Poi un giorno al vecchio gli prese un ictus e dopo una settimana lungo disteso per terra mio padre si decise ad andar a chiamare l’ambulanza.


All’ospedale dissero che se fosse stato ricoverato un po’ prima magari con il tempo avrebbe potuto salvarsi ma messo come era messo era meglio se gli facevano una bella puntura di potassio e buonanotte ai suonatori. Mia nonna che soldi per mantenere un invalido del genere in casa non li aveva fece finta di essere sorda e così il vecchio fu ricoverato in chirurgia con una diagnosi di peritonite. Inutile dire che l’operazione non ebbe esito positivo e dalla chirurgia il buon vecchio Edoardo passò direttamente all’obitorio. A quel punto il mio caro babbino divenne il capo famiglia e per tirar la carretta decise che nonostante i miei sei anni dovevo contribuire anche io al bilancio familiare. Il fratello di mio padre, di lui più giovane di un anno, era un uomo debole e meschino. Con la scusa che era anche lui balbuziente e che le donne lo schivavano come la malattia o la fame si faceva scudo di mia nonna e passava le intere giornate in casa davanti al fuoco a frignare che voleva una donna vergine, bella e anche rispettosa della figura maschile. Alla fine sposò la scema del villaggio ma era vergine e quello, per quel topo di fogna, era già più che sufficiente. Tornando a me, come dicevo, dovetti andare a lavorare. Il fratello di mia madre, un uomo calvo e grande obeso, era un piccolo imprenditore. Mio padre mi mandò a bottega da lui. Si occupava di pulizie di canne fumarie; in pratica era lo spazzacamino del borgo e dato che per certi lavori occorrevano corpi minuti fu ben lieto di assumermi. Il mattino andavo alla scuola pubblica che distava sei kilometri dalla nostra casa e poi, allo squillare dell’ultima campanella, andavo direttamente a bottega e poi su per i camini a cacciar giù la caligine. Questa storia andò avanti per un bel pezzo fino a quando non mi dissero che non stavo frequentando la quarta media perché era una classe inesistente.


Questa notizia mi gettò nel più profondo sconforto e allora decisi di abbandonare la mia famiglia e di andare per il mondo a cercar fortuna. Mi ricordo ancora come fosse ieri di quella sera che detti l’annuncio ai miei famigliari. Era una bigia giornata di novembre, sulla città una pioggia battente opprimeva gli animi dei villici che stavano tutti acquattati nelle proprie dimore, chi a perdersi in un inutile chiacchiericcio, chi in un silenzio ottuso a guardare le spoglie pareti. I miei erano tutti in cucina, attorno ad un desolante desco bandito unicamente con poche cipolle e tozzi di pane raffermo. Mia nonna, ormai una mummia decrepita e totalmente cieca, sferruzzava una coperta all’uncinetto completamente senza forma e a colori bizzarri. Mio padre, ormai schiavo del vizio, tracannava dell’aceto o del dopo barba non ricordo bene. Mia madre, che nel frattempo era morta di parto da due anni, giaceva in uno stato di semi putrefazione vicino al camino dove Bobi, il nostro cane, ne mordeva il cadavere per nutrirsi con gli ultimi brandelli di carne rimasta attaccata a quelle povere ossa. Mio zio, quell’inutile essere, seduto su di una seggiola sbilenca, continuava a ripetere come un disco rotto “ho fame, polpa, polpa, voglio polpa” e mentre continuava con questa solfa accarezzava la coscia della sua moglie scema che con un sorriso ebete sulle labbra spandeva bave sulla tavola. Ritto in piedi con lo sguardo fermo e deciso dissi: “ Ho deciso di dare una svolta alla mia vita. Non voglio finire i miei giorni nell’abbruttimento totale nel quale voi stessi vi siete cacciati. Tu, babbo, non so se mi fai più schifo o pena ma credo che lo schifo sorpassi la pena di alcune leghe. Sei un vigliacco e come pittore non hai futuro. Zio, io ti disprezzo, mi dai il voltastomaco e il trovare ripetutamente la tua biancheria intima sporca sul cuscino del mio letto mi ha definitivamente stancato, sei uno squallido inetto e se lo vuoi proprio sapere tua moglie ti tradisce ripetutamente con il postino! Cara nonna, tu sei l’unica persona qui dentro di cui io abbia rispetto ma oltre che cieca sei pure sorda e quindi è del tutto inutile che io stia qui a cianciare per nulla. Un futuro radioso e pieno di promesse m’attende oltre quella porta che io intendo varcare per non far mai più ritorno in questo luogo di degrado assoluto. Addio”. Avrei voluto dire qualcosa anche ai miei cugini Rino e Pino, due gemelli siamesi uniti per l’addome, che come loro solito stavano sulla logora ottomana a bisticciare rifilandosi dei sonori ceffoni a vicenda ma lo trovai inutile. Mio padre ebbe un sussulto, scagliò la bottiglia da cui stava bevendo contro il muro ma avendo bevuto troppo sbagliò mira colpendo al capo la povera nonna che svenne per il colpo. Disinteressandosi completamente della vegliarda il meschino genitore mi disse:” Brutto piccolo pidocchio, approfittatore, ingrato! Ecco la ricompensa per averti tirato su come un principino e averti dato una solida istruzione. A me non importa delle tue scellerate scelte, prima o poi, lo so, tornerai frignando alla cuccia, Dio pensa a tua madre, così le spezzerai il cuore!”


“Il cuore di mia madre se l’è mangiato Bobi vecchio tricheco, non vedi dunque giacere laggiù il corpo senza vita di mia madre, Tua moglie!”


Ebbe un momento di evidente imbarazzo e poi si afflosciò senza forze sulla seggiola e non proferì più parola. In un silenzio rotto solo dal rumore delle sberle dei due cugini salii nella mia camera, raccolsi le mie poche cose e abbandonai la casa che mi aveva dato i natali. Dietro di me un capitolo della mia vita si chiudeva e a passo deciso avanzavo in un futuro che non pensavo potesse esser peggiore di quello a cui ero stato costretto.

3 commenti:

corvocalvo ha detto...

Capolavoro. Attendo fremente il seguito.

Anonimo ha detto...

E' davvero bello. E non lo dico così perchè si dice... Monica

Claudia L. ha detto...

C'è un seguito vero? Continuo con "I pilastri della terra" ma attendo a breve il seguito di questo fantastico racconto. Claudia