Si è finalmente spezzata la lunga catena di misteriose sparizioni di giovani donne e anziane signore nel territorio della Capitale etrusca d'oriente. E' stato infatti arrestato ieri PierCornelio Budazzoni di professione coreografo ma con l'hobby del cannibalismo. Ma procediamo con ordine. Tutto inizia 3 anni fa quando in un melanconico pomeriggio d'autunno dal piazzale della coop sparisce Ildebranda Spanetta. La ragazza, una procace ventunenne con la mania per gli uomini villosi e scarsamente puliti, era in attesa di un incontro clandestino con uno dei suoi numerosi amanti mentre il fidanzato Adelmo Binerelli stava all'interno della coop a comperare mezzo supermercato. Quando lo sfortunato fidanzato uscì nel piazzale con 28 carrelli di inutili oggetti, della giovine non era rimasto che la borsetta sul selciato contenente unicamente l'elenco Pagine Gialle degli uomini soli. Passano 8 mesi esatti nella più completa calma mentre i segugi dell'anticrimine etrusca si dedicano alle indagini nelle pause tra una partita a carte e l'altra. Otto mesi in cui la Signora Mariuccia Boson continua la propria inutile quanto inconcludente esistenza ignara di essere già vittima predestinata dell'assassino. La Boson è una zitellaccia arida e inacidita di 56 anni dedita al pettegolezzo e all'ingiuria. Passa interi pomeriggi affacciata al balcone di una delle finestre di casa a controllare i passanti. Nel tempo libero consuma ettolitri di "macchiatone" seduta ai tavoli di svariati bar del centro mentre con sue simili spande vetriolo su tutti i cittadini adriesi.Il suo destino si compie in nella notte del 28 agosto mentre un violento fortunale si abbatte sulla città etrusca. Un unico urlo squarcia la notte e poi nulla. Le indagini non portano a niente e nel frattempo sparisce una corriera carica di invalide polacche in transito per Lourdes. Il panico si diffonde per le vie del centro e le donne etrusche d'oriente si organizzano in gruppi di auto difesa decidendo di non lavarsi ad oltranza. I sospetti nel frattempo si sommano attorno al misterioso PMP accusato di essere un movimento di pericolosi bolscevichi dediti al cannibalismo. "Noi non ci entriamo manco per il cazzo" rivendicano gli appartenenti al gruppo con un volantino lasciato dentro la cuccia del cane Bobi 985. Il governatore Galan si interessa personalmente al caso in un afoso pomeriggio agostano offrendo una cena galleggiante sul Canal Bianco ai sostenitori del centro destra ma ciò nonostante i misteriosi sparimenti continuano. Pattuglie di dischi volanti offerti dalla Lega dei pianeti scorrazzano nei cieli adriesi creando scompiglio agli amanti del volo a vela ma del misterioso rapitore nessuna traccia. La storia, orrenda prigione, intanto segna nei suoi annali altre 4658 sparizioni che mettono in subbuglio la popolazione. "Di questo passo noi etruschi d'oriente ci estingueremo non potendo più accoppiarci con nessuna donna; jokken che situazione tribolata" afferma Ubaldo Carnazza presidente dell'associazione Mashioni Adriesi. Ma la fine per l'assassino si avvicina. Infatti ieri l'ultimo rapimento e poi la cattura. Sono le sette e trenta del mattino quando da vicolo Tretti si ode un urlo, è quello di Sebastiana Nalon settantenne grande obesa che invoca aiuto. Gli abitanti pensano che si tratti del solito problema ovvero che la tapina nel transitare nello stretto budello sia rimasta incastrata tra i muri ma invece vedono con sgomento la meschina agganciata ad una catena e trascinata da un vericello sul cassone di un Ducato fiat guidato da uno sconosciuto. Ildebrando Caggafoni, un sordomuto probo cittadino, riesce a memorizzare la targa del veicolo e da lì all'arresto del delinquente il passo è breve. Raggiunto presso la sua abitazione il Budazzoni viene scoperto mentre banchetta con i poveri resti della vittima. "Sono uno sfigato senza speranze e le donne mi hanno sempre preso a pesci in faccia e io per vendetta ho deciso di mangiarmele tutte crude jokken!" Fortunatamente l'incubo e finito.
mercoledì, settembre 30, 2009
domenica, settembre 06, 2009
FAZIONE ATTACCA: Prodotti Avitaminici
Prodotti Avitaminici 4.444 Reiko4
Stava seduto sullo sgabello con le braccia posate sul bancone del bar da almeno due ore. Davanti a se l’ennesimo bicchiere di vodka ai frutti, albicocca per quel giro. Erano 10 mesi che mancava da li, da quando sua moglie lo aveva cacciato di casa come un cane, senza possibilità di fargli spiegare nulla, via così come se fosse stato fatto di polvere, cancellato. Cancellati 8 anni di matrimonio, cancellato tutto. Quella storiella gli era costata cara, il lavoro, la quiete familiare, il rispetto dei vicini e il rispetto per se stesso. Tutto per una serata storta, per una puttanata di nessun conto. Ma per sua moglie, per la sede centrale della sua banca quella foto che era circolata nella piccola cittadina era un torto troppo grosso e lo avevano fatto a pezzi. Se la ricordava come la prima foto della sua vita, come la foto della prima elementare dove si guardano i volti dei compagni persi per la strada ma quella era più vivida. La si vedeva bene la sua faccia piantata dentro le natiche della ballerina del ben noto posticino dove signorine della forme procaci agitavano il deretano e rettificavano le pistole dei probi cittadini del luogo. Quella serata tra compagnoni gli era davvero costata cara, nel giro di una settimana il giovane rampante benpensante vice direttore della banca rurale di una santa a caso presa dal mazzo era diventato un novello Eliogabalo, un libertino senza ritegno dedito alla crapula e al gozzoviglio. Niente da dire, lo avevano messo alla gogna come un lazzarone d’altri tempi, preso tra due fuochi. Si ricordava del clima glaciale quando quella sera era rientrato a casa e aveva trovato Gloria, la sua adorata mogliettina, con gli occhi sbarrati seduta con il culo in bilico su una seggiola della cucina.
“sei questo qui tu?” gli aveva detto con un tono di voce tagliente come il disco di una sega circolare. A lui d’un tratto gli erano apparsi due pianoforti a coda sulle spalle, si era piegato sulla foto a riconoscere la sua bella faccia che sprofondava nelle madide dune del posteriore di un’ucraina procace sudata come una cavalla dopo una corsa di trotto. Il mondo gli era passato davanti tutto di un colpo, lasciandolo indietro immerso in uno spazio freddo e gelido. Stalattiti millenarie una dietro l’altra gli si erano conficcate nel cervello.
Non riusciva a dire nulla balbettava come Pappagone e non riusciva a cacciare una frase di giustificazione. Lo sguardo di Gloria, la sua Gloria lo perforava e bruciava secondo dopo secondo la somma dei loro giorni felici vissuti insieme. Si bruciava il loro idilliaco amore iniziato alle scuole superiori, i giorni dell’università, la festa della sua laurea in economia e commercio, la festa in campagna della laurea di Gloria in Lettere. Quella festa deliziosa sotto la pioggia con la proiezione delle loro foto fin da ragazzi in braghette corte, la torta con le candeline. Andava a fuoco il suo incarico alla banca, incarico che suo suocero gli aveva trovato appena un mese dopo la sua laurea, la loro casa nel quartiere residenziale appena costruito, tutto a puttane, alè in compagnia dell’ucraina che per un foglio da cento gli aveva fatto vedere la topa da ben vicino e gli aveva rianimato il pistolozzo con un paio di carezze ben assestate. Poi il giorno dopo le cose erano precipitate al lavoro. Nella sua scrivania, appena arrivato , trovò la fotocopia a colori dell’attimo fuggente incriminato e una bella scritta a pennarello rosso: “ Mangiami stà scoreggia direttore!”.
Davvero un incubo in tre dimensioni vero e pesante come un macigno scagliato da un ciclope incazzato sulla sua testa. Non passarono neppure due ore, che lui trascorse rinchiuso come un frate minore dentro il suo ufficio, che arrivò la telefonata della sede centrale che lo invitava, con solerzia, a presentarsi dal responsabile delle filiali per la sua regione. Furono quaranta chilometri di auto misti tra il mondo dei ghiacci e il tormento delle fiamme dell’inferno. L’uomo in grisaglia lo aspettava nel suo ufficio. Il delegato del padreterno lo accolse con uno sguardo di ghiaccio. Alle sue spalle una splendida scultura lignea di padre Pio e un’immagine della santa protettrice della banca. Non furono molte le parole che riuscì a decifrare ma spiccavano per la loro reiterazione termini quali vergogna, non possiamo ammettere…lei capisce…il prestigio…i nostri clienti. La concretizzazione di quel dialogo era l’esplicita richiesta di sue immediate dimissioni almeno per evitare l’umiliazione ulteriore, non per lui ma per la povera consorte, del licenziamento. Peggio che rubare, peggio che uccidere. Non si poteva concepire che uno zelante scherano di quella accolita di ipocriti stesse accucciato al culo di una EXTRACOMUNITARIA, forse nella complice oscurità delle mura domestiche, ma mai e poi mai sacrificare il prestigio dell’azienda all’altare della fregna. Questo era quanto. Ma non era una situazione nuova anche per lui, in effetti si ricordava con quanta dovizia aveva fatto licenziare uno dei suoi cassieri perché si mormoreggiava in giro che fosse l’amante di una negra, una negra di quelle nere come l’ebano che lavorava per un’impresa di pulizie nella sua filiale. Tra i due era nato l’amore e il cassiere non si vergognava di farsi vedere in giro con lei. Una lettera, una telefonata e il giovanotto si era ritrovato per la strada. Tutto chiaro no? Questo e’ il gioco. Ma in quel gioco adesso era lui la carta da scartare e gli faceva male. Dimissioni, una macchina da 60 milioni venduta per un’utilitaria, cinque scatoloni nel baule e la sua vita era sparita lungo la strada privata del suo quartiere modello. Un amico, uno di quelli che quella sera era con lui gli diede una dritta e con un po di culo lo fece assumere come vice direttore in una sala del bingo. Niente male, niente male per un disgraziato, per un nulla ma per lui era umiliante girare come un pinguino per la sala a controllare le cartelle, ad indirizzare i camerieri e i venditori ai tavoli. Santo dio che miseria. Faceva i conti con tutta quella merda seduto in quel baretto della statale appena fuori dal mondo idilliaco della sua cittadina linda linda. In effetti a ben pensarci quella che lui amava chiamare “la mia città” era poco più che un buco verminoso nel bel mezzo di una distesa di ettari di granturco e barbabietole che nel periodo invernale sprofondava in una coltre di nebbia densa come latte. Per non parlare dell’estate quando una cappa d’umidità faceva infradiciare gli abiti come piovesse. Volteggiavano nel cielo notturno dell’estate sciami di zanzare assetate di sangue pronte a lanciarsi come kamikaze impazzite su ogni pezzo di carne che deambulasse. C’era un cinema, cinque chiese, un ospedale mezzo finito e mezzo fatiscente, un bel palazzo del comune e delle casacce costruite a cazzo sparpagliate senza criterio da una mano di un gigante cieco. Ma c’era pure la sua banca, l’associazione degli agricoltori dove manco per il cazzo ci entrava il bracciante ma tutti spavaldoni con pezzi di terra dove ci dovevi sudare la camicia per correrci fino alla fine, anzi era meglio che ti comprassi un motorino per attraversarle, sperando ovviamente che non ti finisse la miscela. Oltre a questi bontemponi il tessuto sociale era animato da quattro bottegari che stavano calando le braghe davanti alla nuova invenzione di un centro commerciale costruito con i soldacci degli stessi landlords tanto amanti della vita cheta e rilassata che solo l’ambiente rurale sapeva donare. Loro e i loro trattoroni, le loro macchinone sporche di fango e le camice immancabilmente bianche il di della domenica mattina prima di andare alla messa. Era stato uno di loro e sotto sotto lo era ancora. Cercò di scrollarsi di dosso questi pensieri e fece mente locale sul perché fosse ritornato lì. In effetti aveva ancora le chiavi di casa, aveva ancora diritto per legge di avvicinarsi a quella che era stata la loro comune dimora. Magari Gloria aveva sentito la sua mancanza, magari la ferita si era cicatrizzata, magari… Gli mancavano tanto le sue comodità, il morbido della sua poltrona, le braciolate la domenica con gli amici di famiglia, la tele a 40 pollici, il dvd, la vasca con l’idromassaggio, Dio gli mancava Gloria. Con quelle sue tettine così ben tornite, la sua pelle profumata e quella sua topina dove ogni venerdi’, sabato e domenica che il signore comandava in terra lui mandava il suo savoiardo in esplorazione. Poi il sabato ci scappava pure il pompino, superbo atto di perdizione sensuale…ahhh Gloria Gloria delle mie brame. Ormai aveva deciso doveva riprovarci. Prese coraggio e pagata la bolletta alcolica al tizio scalcinato dietro il banco uscì verso la sua fiammeggiante 600 giallo taxi presa usata, quasi nuova, a un tot al mese che gli decurtava la paga da pinguino. Grazie al cielo almeno c’era l’autoradio e con se aveva portato dei nastri, roba vecchia ma evocativa. Una bella raccolta di brani anni settanta che si era fatto registrare da Gino un vendi-cartelle del bingo che arrotondava lo stipendio facendo il dj in una discoteca di periferia dove vecchie caldaie divorziate o zitelle con il culo debordante si facevano intortare da pii pellegrini con il moccolo infiammato ai fine settimana. Brano di prestigio “gloria” di Umberto Tozzi, versione originale e rimixata. Gli venivano in mente le giostre dove i ragazzi dei poveracci andavano con le malboro da dieci incastrate nelle maniche arrotolate delle t-shirt a tirate cazzotti al tirapugni strombettante vicino all’autopista. Lui ci andava con i suoi amici da ragazzo, ma a differenza di quei figli di braccianti, di mezzi morti senza nessuna prospettiva se non l’andare alla fonderia o all’impalcatura, lui ci passeggiava e basta, ridacchiava con i suoi allegri compagni e poi si faceva vedere dalle stronzette che assiepavano la piattaforma dei dischi volanti. Tra quelle c’era sempre una carina a cui far segno, poi per una settimana potrebbe essere stata nominata la sua fidanzata e girare sul suo caballero 50 sei marce a scorazzare per il viale centrale della “città”. Bei tempi quelli. Adesso invece un brutto temporale che sembrava non passare mai faceva precipitare sulla sua testa una pioggia solforica fatta di distillato di pura sfiga. Barba incolta da tre giorni, alito vinoso, braghe di tela da quattro soldi, automobilina da guappo di quartiere periferico e una mazzetta di fogli da dieci euro in tasca. Declino e caduta di un occidentale insomma. A un passo dalla soglia di povertà gli toccava scoprire controvoglia che significasse tenere a bada i suoi desideri anche quelli minimi tipo di prendersi una vacanzina striminzita di una settimana in un qualsiasi buco di culo estivo. Era davvero sfessato, con la rompicoglionite acuta che gli mordeva il bassoventre come una tagliola per orsi. Tenendo la musica a palla percorse i tre o quattro kilometri che lo separavano dalla “ville lumiere” culla della propria infanzia e sede del suo ex nido d’amore. Al cartello che recitava l’inizio del territorio urbano abbassò il volume per non farsi notare. Per essere un fine settimana si sarebbe potuto pensare che una pestilenza spaziale si fosse abbattuta sulla cittadina, poche macchine in giro, solo la luce dei bar vomitata sulla strada segnalava la presenza di umanità varia all’interno di quegli antri. Passò per la piazza principale davanti al bar “Centrale” (un colpo di genio aveva illuminato il primo proprietario per quel nome che sprizzava originalità) dove per tanti anni si era ritrovato con i pezzi buoni della città. Cercò di vedere attraverso le vetrate se riconosceva qualche volto ma i vetri erano stati sostituiti da un nuovo modello brunito e riflettente, di quei vetri che permettono a quelli che sono dentro di guardar fuori senza esser visti. Tutto a soddisfare il voyeurismo dilagante nell’allegra società contemporanea. Anche la vecchia insegna esterna era cambiata, non più rossa con i neon all’interno ma una più consona alle nuove direttive per il mantenimento dell’aspetto estetico dei centri urbani. Un bel scrittone giallo oro con due stelle roteanti ai lati ma però opportunamente illuminato da luce indiretta proveniente da due faretti modello antiaereo. Accelerò un po troppo bruscamente facendo pattinare le ruote mentre sterzava, sicuramente da oltre quelle vetrate qualcuno aveva notato il seicentino giallo nella sua roboante ripresa e lui si immaginava i commenti; commenti che lui per primo avrebbe fatto su qualsiasi tamarro da casermone periferico in vena di fesserie serali il di della festa. Si accese una paglia, una multifilter di quelle lunghe col pacchetto color marron, brutte, cattive e pestifere. La tipica sigaretta del pezzentone che però tira a darsi un tono, che facciano cagare non conta una mazza ma col pacchettone lungo e il filtro bianco ai carboni attivi…bhe insomma, almeno sei uno stronzo che galleggia in una vasca di piscia! Le bevande consumate al baretto gli avevano gonfiato la vescica e dato che l’alcool, come è risaputo, fa gas, anche il budello si era gonfiato a dovere, a farla breve doveva espellere il surplus d’aria immagazzinata ma soffrendo di colite temeva che al primo sbuffo deretanesco gli sfuggisse oltre all’agoniato peto anche del liquido fecale risultanza dei beveraggi di scarsa qualità e del misero pasteggio fatto di tramezzini gusto uovo, tonno e cipolline. Stringendo denti e ano, alzando un po la natica destra dal sedile,diede fiato alla tromba. Eccola là che partiva nell’aria la nube tossica, piccola Bhopal in formato monodose, ma quando tutto sembrava filare liscio gli scappò quel tanto di sciolta da umidificargli chiappe e mutanda. Non un disastro ma quel tanto di spurgo velenoso e acido che trapassa le mutande e fa il chiazzone verso il basso delle braghe. Pensò che tutto sommato nessuno lo avrebbe visto e quindi il danno era limitato al fastidio tra le chiappe e al discreto puzzo di merda che si sarebbe portato dietro fino al suo rientro a casa. Li di sicuro c’erano ancora i suoi vestiti, la sua biancheria e sua moglie non avrebbe potuto di certo negargli almeno un bidet, cribbio era anche suo quel bagno, anzi quei tre bagni! Prese il vialone che portava verso il quartiere residenziale dove al n° 18, immersa dietro una siepe di pseudolauro, adagiata su un simpatico giardino abbellito da alberi ornamentali stava la sua magione. Diede un po di gas portando il seicentino a quota 80 kilometri orari, velocità non consentita nei centri urbani, ignaro del fatto che da alcuni mesi il Comune in affanno con le entrate, nel zelante tentativo di far rispettare le norme del nuovo codice della strada, aveva istituito il servizio notturno della polizia urbana. Laser alla mano il vigile scelto Marisa Alibrandi coadiuvata dal vigile Marcello Filippini puntò il rilevatore verso quell’unico mezzo in arrivo notando sul display la velocità di Kms 83,5, velocità non consentita e passibile di multa di euro 250. Con un gesto del capo mise in moto il suo fedele partner il quale con posa marziale fece un passo in avanti sulla carreggiata esponendo la paletta, ambasciatrice di disgrazia per ogni guidatore. Gli sembrava impossibile, chi poteva sbucare da dietro quel tiglio con una paletta in mano, non era certo febbraio con il carnevale che impazzava, non certo la polstrada, li non c’era spazio per la macchina…….fu preso da sgomento mentre staccando il piede dall’acceleratore individuò i due scooter della municipale milizia. Marisa Alibrandi, vigile scelto classe 1963, si accostò al finestrino e lì incrociò il suo sguardo con il suo, la riconobbe subito, come un incubo in tre dimensioni rivide la sua vecchia compagna di classe, la Marisa detta Pastasciutta per il suo soprappeso, Marisa dal pianto facile che lui si era divertito mille volte a prendere in giro. Adesso Marisa stava lì, nella sua bella divisina bleau con i galloni gialli sulle spalline, sempre lievemente in soprappeso e lui era alla sua più completa mercè. Anche lei lo riconobbe, il drittone dello scientifico, uno dei fighetta che l’avevano umiliata per 5 lunghi anni di scuola. Aprì la portiera della macchina e scese e con lui, attaccato al culo con lo spago invisibile, il vento caldo generato dal buio anfratto sito tra i suoi glutei. “Ciao” provò a dire e per tutta risposta si sentì rispondere con un freddo “buonasera, patente e libretto per favore”. Marisa storse il naso, le sembrava che quella macchina fosse appena uscita da un’azienda agricola con il bagagliaio pieno di stallatico suino buono per la concimazione degli orti. “qui c’e’ il limite dei 50km orari, le devo elevare una sanzione, sono 250 euro, concilia?”
“Ma facevo i 55, via non mi vorrai fare la multa Marisa!” rispose con un fiato degno di un ubriacone capace di bersi pure il dopobarba per mantenersi la sbornia.
“ha bevuto per caso?” disse la Marisa
“chi io, io no, solo un birrino dopo cena!”
“Ummm, si direbbe che al bar che lei frequenta i birrini li servano in taniche da 25 litri, le devo fare la prova del palloncino!”
La nemesi era arrivata silente sotto forma di vigile, il boomerang era ritornato indietro e lui era lì nel bel mezzo della strada pronto a beccarselo nei denti.
Gli diedero il tubino con il palloncino e lui soffiò maledicendo il fatto di non essersi comperato un pacchetto di cicche, quelle forti al mentolo che se ne mangi cinque in un colpo per almeno venti minuti ti escono i ghiaccioli dalla bocca.
“tasso alcolico elevatissimo, mi sa che le devo ritirare la patente, conosce qualcuno che possa venire a prendere la macchina oppure avverto il carro attrezzi che la porti in deposito?”
“che cosa …la patente…il carro attrezzi…Marisa dai per favore ti prego, ho dei problemi, giuro che lascio ferma la macchina e la vengo a riprendere domani, questa sera torno da mia moglie, fammi un favore!”
Davvero triste, piagnucolava con gli occhi liquidi quasi a mani giunte ma di fronte aveva un pezzo di granito incastonato in un blocco di ghiaccio, niente da fare.
“Bene, allora chiamo il carro attrezzi, le sopendo la patente e le elevo la multa per eccesso di velocità.”
Rimase in silenzio mentre osservava la Marisona che con una Bic blu preparava il verbale con bella calligrafia. Prese il foglio del sequestro, lo piegò in quattro e se lo mise in tasca incamminandosi in quella notte sempre più buia.
Da dietro si senti dire “Buona notte Edoardo e buon riposo….se qualcuno ti darà un letto da dormirci sopra!”
Solo, umiliato, deriso e scacciato da tutti, che altro ancora!
Si mise in cammino a testa bassa come un bue al quale avessero messo un giogo troppo pesante con attaccato un aratro con cui solcare l’asfalto. Pensieri cupi di vendetta iniziarono ad accalcarsi nella sua testa, foschi desideri di rivincita, lui sarebbe tornato, si sarebbe risvegliato da quell’incubo e avrebbe fatto strage come l’angelo sterminatore delle piaghe bibliche. Doveva solo avere un po di pazienza, ormai il fondo lo aveva toccato per davvero e non aveva altra scelta che risalire e il primo gradino da affrontare era Gloria.
Si preparò mentalmente un discorso da farle con il cuore in mano, un discorso da uomo che sa di aver sbagliato ma che desidera redimersi, che vuole ritornare come un figliol prodigo al gregge che sulla retta via percorre gli anni della vita terrena nella consapevolezza che maggiore è il peccato tanto più profondo sarà il perdono. L’unica nota dolente era il bruciore che gli stava divorando l’interno delle chiappe, per il resto aveva ritrovato spirito. Si accese un’altra sigaretta guardando sconsolato il pacchetto stropicciato dove erano rimasti unicamente tre cilindretti di carta bianca con il loro contenuto della preziosa miscela di tabacchi virginia. Dopo dieci minuti era arrivato, la vide la sua bella casetta, oltre la siepe, oltre il giardino in rilievo su una piccola dunetta che gli era costato un bel andar e venir di camion di terra di riporto per conferirle quel suo aspetto tipico della casa di uno che sta un mezzo metro più in alto del volgo. Suonò al citofono con il cuore che gli batteva il sangue in gola aspettandosi che dallo scatolotto metallico lo raggiungesse la voce della sua amata mogliettina, ma niente. Tutto era spento, nessuna luce scivolava fuori dalla ampia vetrata del salotto, niente a testimoniare che lei fosse in casa. Pensò allora che fosse uscita con le sue amiche, in effetti il venerdì andava in palestra e magari poi era rimasta fuori a mangiare qualcosa con loro. Povera Gloria, sola, senza il braccio forte e confortevole di un uomo, sola nelle notti d’inverno quando voltandosi nel letto non trovava il suo caldo abbraccio, il rassicurante tono della sua voce. Gli si strinse il cuore. Rovistò nelle tasche fino a trovare il mazzo delle chiavi. Aprì il cancelletto e si immise nel vialetto che conduceva all’ingresso della casa. Guardò il giardino, perfetto, tagliato di fresco con l’acero siliquanda che faceva bello sfoggio di una chioma scura di foglioline color vinaccia, guardò il piccolo roseto a cespuglio, quelle rose candide che a Gloria piacevano tanto; trovare quella particolare varietà gli era costato un occhio sia di soldi che di tempo ma alla fine lo aveva rintracciato presso un noto vivaista di Pescia. Poi le due aiuole, meravigliose con l’impianto a goccia, con la pacciamatura giusta, il temporizzatore stava poco più in là pronto a dar vita a piccoli rigagnoli d’acqua che le mantenevano sempre fresche e dai colori vivaci. Tutto molto bello, tutto molto curato come le mani di una bella donna con gusti sofisticati. Aprì la porta di casa ed entrò. Accese le luci e rivide tutto quello che gli era stato negato per tutti quei mesi di purgatorio, la specchiera fine ottocento meravigliosamente contenuta nella cornice intarsiata a mano, comperata da un noto antiquario di Padova amico fraterno del babbo di Gloria, il mobiletto in stile povero, in puro massello di noce impreziosito da ninnoli di cristallo di Murano tanto cari alla sua dolce. Il pendolo a parete, bello massiccio con tutte le sue catene ottonate che sostenevano il peso degli ingranaggi di carico, perfetto nella sua riproduzione del quadrante Old British. Già dall’entrata si spandeva per tutti i locali quel fragrante profumo di essenza di bergamotto che purificava nella sua contenuta dolcezza. Passò poi in salotto per rimirare di nuovo il suo luogo preferito per l’agio. Il comodo divano in pelle bianca, il tappeto persiano Qsciam in seta morbida quanto un fazzoletto e le eleganti piantane in metallo anodizzato con coperture in vetro opacizzato dipinte a mano. Le porcellane in stile moderno sembravano sempre in precario equilibrio, opere uniche fatte da artisti contemporanei con impianti tradizionali, sapiente miscela di caolino quarzo e feldspato.
Ai piedi del tavolino centrale in acciaio tubolare con cristallo fumeè vide un paio di mocassini Tod’s color pastello, erano quelli che contenevano i piedini da cinesina della sua bella. Ad un lato dell’ambiente faceva bella mostra di se un Video al plasma della Waitec 40”, eccezionale per la sua definizione di immagine con un angolo visivo da 160°, assieme all’impianto dvd dolby sourraund era il suo orgoglio hi-teack. Si ricordò di quella volta che lei e lui avevano visto il film Titanic stretti l’una all’altro e avevano pianto al finale, poi nell’estasi dell’amore si erano uniti in una copula distesi sul morbido tappeto. Gli bruciava il cuore come se sopra gli avessero versato del vetriolo. Spense le luci e si sedette sul comodo divano assaporandone l’agio, chiuse un po gli occhi sperando di abbandonarsi. Odorava il profumo dell’ambiente riempiendosi i polmoni, vedeva la sua bella che si muoveva come su di un velo di ghiaccio secco sublimato, leggera come la visione di una dea. La immaginava sola ed affranta, chiusa nel suo dolore fatto di rimpianto ed orgoglio. Era quell’orgoglio che non gli permetteva di fare il primo passo verso di lui, verso la riconciliazione. Dolce Penelope ferita nei sentimenti, ma lui, novello eroe epico di ellenica memoria, era ritornato, in ginocchio ai suoi piedi per ridar vita a quel sopito fuoco che ancora ardeva nei loro cuori. Riaprì gli occhi, impelleva una doccia, doveva essere presentabile per il grande abbraccio del ritorno. Scese le scale verso il piano interrato della casa. Percorse un breve corridoio fino al bagno di servizio, quello che lui preferiva al ritorno dalle partite a tennis al club sportivo. Lo ritrovò nello stesso stato in cui lo aveva lasciato. Sulla mensola sotto la specchiera ancora la sua schiuma da barba al mentolo, il suo rasoio in bagno d’oro riposto nell’elegante astuccio drappato in damascato violaceo, i suoi profumi preferiti, fragranze che si era quasi dimenticato. Appena fuori dal bagno c’era una cassettiera con i suoi indumenti intimi e sportivi. Prese un paio di boxer Benetton verdi militare, t-shirt adidas, un paio di calzoni di una tuta della Lotto e una polo azzurrina della lacoste. Si rase a dovere, si deterse il volto con una leggera mousse vegetale e poi si improfumò come un adolescente alla sua prima uscita galante. Non si dimenticò di farsi una serie di profondi gargarismi con un collutorio agli estratti vegetali frutto della paziente ricerca di erboristi giapponesi, una boccetta costava quanto una bottiglia di Chateaux Margaux del ’58 ma rettificava il fiato come null’altro al mondo.
Era come se fosse rinato, partorito bello fresco, cancellato tutto, riportato alla vita. Si guardò allo specchio e si trovò bello, certo alle tempie i capelli gli si erano ingrigiti ma gli davano quell’aria decisa e saggia che un uomo nel mezzo della propria vita porta con orgoglio. Riprendeva stima di se, era a metà dell’opera insomma. Mentalmente iniziò a prepararsi il discorso………ineccepibile. Stava per accendersi una sigaretta ma pensò che il fumo avrebbe rovinato l’opera preziosa del collutorio. Si sedette lungo disteso sulla panca del salone che lo aveva visto mille volte anfitrione di serate tra amici. Fissava il soffitto con un sorriso beota stampato sulle labbra. Alzando l’avambraccio sinistro diede un’occhiata al suo Vetta del ’62 a movimento meccanico : 23.35, sentiva che l’ora si avvicinava e chiuse gli occhi preso da una sorta di beatitudine purpurea. Fù il suono metallico di un cancello e un vociare confuso che lo svegliarono dal suo limbo. Sempre il suo Vetta del ’62 a movimento meccanico l’aggiornò sull’orario: 02.28 ! Impossibilitato dal cacciare un bestemmione di stupore dalla sua educazione cattolica mormorò qualcosa di molto simile ad un blando “diavolo cane” o “diavolo pesce”, forse azzardò un duro “Porco Giuda!”. Preparando la sorpresa si tirò su di scatto e si nascose nel ripostiglio delle scope e delle scarpe attendendo che Gloria congedasse le sue amicizie per poi scoprirsi a lei come un angelo dell’annunciazione. Tirò la porta a soffietto e con una trepidazione infantile attese che lei rimanesse sola. Sfortunatamente quel momento non doveva arrivare. Sentì , da quel suo nascondiglio miserabile, la porta richiudersi ma non svanire il vociare a due. Una delle voci era della sua dolce metà ma l’altra? Sicuramente maschile, sicuramente riconoscibile, ma non voleva svelarsi ancora, gli sfuggiva, come rincorrere un’ombra nella nebbia. Erano lì appena oltre la sua postazione, nel salone dove solitamente ricevevano gli ospiti. La curiosità gli rodeva il cuore, perché alle due e mezzo della notte quella voce maschile aleggiava come un fantasma all’interno del suo sacrario, dentro il tempio dedicato a lui e alla sue vestale? Roso dalla curiosità, un misto di morbosità e acredine acida, tirò lievemente il soffietto della porta verso la sua sinistra in modo da ottenere una visuale striminzita sul salone. Le luci, regolabili, erano al minimo, un bagliore lattiginoso, vagamente giallastro, immergeva l’ambiente circostante in una sorta di atmosfera semiliquida, venusiana, quasi irreale. Irreale quanto quello che vide. Gloria era dritta davanti a sé, a meno di tre metri, bella ed altera, con i capelli camomilla che scendevano sulle spalle a ricoprire la camicetta rossa che le addolciva il busto fino a quel punto di stacco cromatico rappresentato da due mani maschili che le avviluppavano i fianchi. Ci sarebbero stati tutti i motivi per balzare fuori in un impeto di maschia gelosia ma una curiosità strisciante e meschina lo imprigionavano con il naso parato contro il soffietto e il manico dello scopettone che gli premeva sul culo messaggero foriero di disgrazie.
I due corpi, quello erano diventati, si spostarono lievemente sulla sua prospettiva permettendogli di inquadrarne chiaramente l’osmotica sensuale vicinanza dei loro volti. Gloria e Tambroni. Tambroni, l’amico che quella maledetta sera era con lui nel locale della lap dance, Tambroni, il brutto della compagnia, il miserabile figuro suo sottoposto, la chiavica umana da due soldi che gli aveva dato una dritta per il posto al bingo. Li vide scivolare verso terra, sul tappeto finemente lavorato, vide i loro corpi stringersi come due polipi in un crescendo sensuale. Sussurri e rantoli accompagnarono la discesa verso quel talamo di amore indegno e fedifrago. Perché sole tu non ti oscuri? Perché luna, pallida compagna di notti insonni, non ti spegni su tale delitto? Comune agli uomini è il bruciare, uno stato fisico che prevede l’annichilimento delle proprie carni interne, l’involucro rimane tale ma dentro i tessuti sublimano servi della fisica, addomesticati dalla termodinamica. Le loro bocche unite, le gambe di lei serrate sui fianchi di lui, quel sensuale groviglio corporeo che lasciava trasparire una passione oltre il sensuale, la posa volutamente inpudica, lasciva. Sotto la spinta delle acque gli argini iniziarono a sbriciolarsi in zolle sempre più grandi su ognuna delle quali c’era un pezzetto di lui. Seguì tutto l’amplesso con stupefatto interesse. Ma perché Gloria gemeva di piacere sotto la spinta del razzo mandato all’esplorazione del suo nascosto pianeta? Perché perfino la sua pelle sembrava brillare. Lampi di denso avorio polverizzato nell’aria, una nuova pomata all’estratto di carica ionica umana, clinicamente testata? No, evidentemente, non erano quelli i motivi.
Fù così che per uno stravagante fenomeno chimico-fisico si trasformò in una grande merda. La scena del crimine era perfetta: avidi d’amore, nel turbine della passione gli amanti venivan spiati dallo sgabuzzo delle scope dal “grande mucchia”, il mostruoso essere merdoso venuto dallo spazio! Inesorabile arrivò l’orgasmo, un vento caldo magmatico che gli abbrustolì il cervello in maniera definitiva. L’ipnotica apnea andò ben oltre il rivestirsi, l’accomiatarsi della coppia e lo spegnimento delle luci. Aprì il soffietto dello sgabuzzo e nella sua nuova forma semisolida arrancò fino ad una poltrona dove sprofondò inghiottito dai suoi foschi pensieri. Era davvero tutto finito, dissolto, perso. Riflettè sulla banalità della sua tragedia e gli spuntò un sorriso beffardo sulle labbra. Si avvicinò al mobiletto dei liquori e nel buio a tentoni raccolse una bottiglia. In ciabatte prese la via della porta, percorse il vialetto e dopo aver scavalcato il cancello si incamminò nel bordo finale della notte, lui e la sua bottiglia. Ci diede un’occhiata prima di dare una forte sorsata del liquore. Sfiga pure lì: era una bottiglia di Batida de Coco cimelio decennale che nel fondo del mobiletto dei liquori attendeva un grande evento come quello per essere giubilata. Cominciò a trangugiarne a sorsate sempre più grandi e nel giro di mezzora la bottiglia era vuota e il cervello spappolato. Con una sincera voglia di vomitare l’anima arrivò sul ponte che attraversava il canale in quella zona della città. Barcollando nel mezzo della strada decise per una pisciata. Ad onor del vero l’equilibrio che sorregge corpo e anima se ne era andato valige alla mano già da un pezzo e per pisciare si calò i pantaloni della tuta fino alle caviglie e poi preso da un istinto animale si denudò il petto. Lo spettacolo che si ritrovarono di fronte l’agente Puddu e l’agente scelto Lo Cascio li lasciò a bocca aperta. Che ci faceva uno tutto nudo con le ciabatte e un paio di braghe calate nel bel mezzo del ponte, completamente ubriaco o drogato, con le braccia stese al cielo e il pendaglione pisciante in azione? Lo caricarono senza tanta fatica sulla macchina e lo portarono di filato all’ospedale. Senza passare per il pronto soccorso si ritrovò a ricovero coatto nel reparto psichiatrico per evidente stato confusionale. Sulla denuncia per atti osceni c’era tutto il tempo. Si beccò una intramuscolare di valium da 20 cc, un clistere al caffè, un lavandone gastrico degno di essere fatto più a un capidoglio che a un cristiano e poi lo infilarono in una stanza in compagnia di un maniaco paranoico che la sera prima in un attacco delirante aveva dato fuoco al cane del vicino in quanto scambiatolo per il diavolo. Molte ore dopo riuscì a spalancare gli occhi al suo nuovo, inedito, meraviglioso mondo. Ebbe la netta sensazione che due bontemponi la sera prima avessero giocato una partita a freccette usando la sua testa come bersaglio. Poi passò al gusto e scoprì con suo grande stupore che la sua lingua era diventata di balsa e che dal pessimo gusto doveva essere stata infilata dentro il culo di un orso per almeno due ore. Ma furono il tatto e la vista a sconvolgerlo. Sentiva una mano nella sua, calda e sudaticcia e poi seguendo con lo sguardo l’avambraccio,poi il braccio, poi la spalla cadde nel liquido sguardo dell’occhio vigile del paranoico che lo fissava dubbioso. Che succedeva? Dove era? Chi era costui? “Ciao, io sono Ezio, tu sei il diavolo per caso?” Furono quelle le prime parole che il suo udito riuscì a percepire prima dell’urlo bestiale che gli uscì dalla gola inondando tutto il reparto e scatenando un concerto di urlacci da jungla ad opera degli altri allegri compagni di corsia. Il primo infermiere gli allungò un ceffone da incubo sulla bocca e il secondo gli fece l’ennesima pera di valium e poi tutto si fece di nuovo nero. Nel frattempo la notizia si era sparsa per la città. Nel naturale percorso di trasmissione orale del fatto la cosa si ingigantì a dismisura arrivando ad un parossismo inenarrabile. Alla povera Gloria, moglie inconsolata e inconsolabile, un’amica nel tardo pomeriggio disse che il suo ex marito era stato trovato nudo sul ponte mentre tentava di buttarsi di sotto. Sembrava pure che durante la notte avesse rubato una macchina e una ragazzina giurava che mentre rincasava un uomo nudo le era apparso davanti mentre si masturbava. Sembrava pure che in ospedale avessero accertato che era drogato pieno di eroina, cocaina, crack, benzedrina, metedrina, morfina, funghi allucinogeni, rospi psicadelici, bacche varie, etere e chissà quali altre sostanze. Sicuro era che fosse affetto da aids conclamato nonché da epatite c e tosse canina. Divenne il caso dell’anno, lo zimbello più spassoso dopo il noto caso verificatosi 25 anni prima del barbiere Brusoni che rincasando una sera aveva trovato la propria moglie a letto con un cavallo. Il giorno della sua dimissione dal reparto i carabinieri ebbero il buon gusto di caricarlo sulla loro macchina fino alla caserma dove gli venne notificata una denuncia per atti osceni in luogo pubblico e il foglio di via in quanto soggetto non gradito. Lo portarono alla stazione dei treni e lo caricarono sul primo locale per il capoluogo. Guardò per l’ultima volta la sua città passargli davanti mentre una leggera pioggia iniziava ad avvolgerla. Deglutì e respinse una lacrima sulle palpebre, sparendo all’orizzonte.
Lieto fine: A due anni da questo spiacevole fatto il nostro amico si è rifatto una vita.
Iscriviti a:
Post (Atom)